Il Segno del Comando: il primo mistery non si scorda mai

Il Segno del Comando: il primo mistery non si scorda mai

Quest’anno compie cinquant’anni una serie TV (allora si chiamavano sceneggiati) che ha fatto scuola in Italia e all’estero. Un mistery con risvolti esoterici, assolutamente innovativo per quel tempo. La storia nasceva da una frase enigmatica rinvenuta in un diario di Lord Byron e rimasta nell’immaginario di tanti di noi. All’epoca poco più che bambini, ma perdutamente conquistati dal fascino del mistero. Il successo fu strepitoso e forse la TV di oggi farebbe bene, ogni tanto, a voltarsi indietro.

«21 aprile 1817, notte, ore 11. Esperienza indimenticabile, luogo meraviglioso, piazza con rudere di tempio romano, chiesa rinascimentale, fontana con delfini, messaggero di pietra, musica celestiale, tenebrose presenze»

Da un’annotazione nel diario romano di George Byron.

Da queste semplici ma inquietanti parole si dipana l’intera vicenda de Il Segno del Comando:

un mistery immerso in un’atmosfera gotica, ma a tratti anche romantico come possono esserlo solo gli amori onirici.

Furono diversi i motivi che decretarono l’enorme successo della serie.

  • Innanzi tutto, la storia, che conquistò non solo gli amanti del noir, ma anche il pubblico non avvezzo alle storie fantastiche,
  • poi la regia esperta di Daniele D’Anza, la sceneggiatura di Giuseppe D’Agata,
  • un cast importante, con esperti attori di teatro come Ugo Pagliai, Carla Gravina, Massimo Girotti, Rossella Falk, Andrea Checchi,
  • e la canzone dei titoli diventata un classico degli stornelli romaneschi, la celebre Cento campane, di cui parliamo a parte.

La trama

Il professor Lancelot Edward Forster, studioso di letteratura inglese ed esperto di Byron, riceve da parte del consulente inglese George Powell l’invito a tenere una conferenza sul poeta.

Al British Council di Roma, riceve, anche, una lettera dal pittore Marco Tagliaferri che lo sfida a trovare una piazza citata da Byron nel suo diario. Luogo che lo studioso ritiene immaginario, ma che secondo il Tagliaferri sarebbe reale.

Giunto a Roma, Foster si reca a casa di Tagliaferri, dove incontra Lucia, una misteriosa ragazza che dice di essere la modella del pittore. La ragazza lo invita per la sera a incontrare il Tagliaferri in una locanda di Trastevere.

Il professore si reca quindi all’hotel Galba, sempre su indicazione di Lucia, per trovare alloggio, lì conosce la direttrice, signora Giannelli, che però nega di conoscere Lucia. Ritrova, invece, una vecchia amica, Olivia, che vi alloggia con tale Lester Sullivan.

La sera si reca all’appuntamento con Lucia, che lo porta in una locanda, la Taverna dell’Angelo, dove attende inutilmente l’arrivo di Tagliaferri. Forse drogato dalla donna, diviene preda di strane visioni che lo conducono allo svenimento.

Al risveglio, si ritrova nella sua auto, dove scopre che è sparita la borsa con i microfilm contenenti tutti i suoi studi sul diario di Byron, ma trova stranamente il medaglione che Lucia indossava, raffigurante una civetta. Foster farà un’altra incredibile scoperta: il pittore Marco Tagliaferri è morto esattamente cento anni prima.

Nell’appartamento adiacente allo studio del pittore vive un suo discendente, il colonnello Tagliaferri, che racconta a Foster della misteriosa morte del pittore e del suicidio della sua modella Lucia.

Su suggerimento dello stesso colonnello Tagliaferri, si reca poi al caffè Greco, dove è esposto un ritratto del pittore, che Foster scoprirà assomigliare tantissimo al suo stesso volto.

Sarà poi una telefonata anonima a indirizzarlo al cimitero degli Inglesi, dove troverà la tomba del pittore, che reca la data della sua nascita, 28 marzo 1835.

Esattamente cento anni prima della data di nascita di Foster; mentre la morte risale al 28 marzo 1871, cent’anni prima della data in cui Foster terrà la conferenza su Byron.

Le sorprese non finiscono qui e la storia è ancora lunga ed estremamente complessa. Pur trattandosi di una serie TV datata, non ritengo giusto raccontarla per intero a chi non la conosce e potrebbe decidere di vederla, oppure di leggere il romanzo scritto da Giuseppe D’Agata. Aggiungo solo che il mistero si trasforma sempre più in esoterismo e il vortice delle emozioni si ammanta ineluttabilmente di sovrannaturale.

La recensione

Il 16 maggio 1971 fu trasmessa la prima puntata di questo sceneggiato, che regalò il suo fascino misterioso soprattutto ai giovani, rimasti per sempre legati a quel mistery ante litteram.

Una storia che miscelava con maestria elementi dell’occulto con il thriller, l’esoterismo con l’horror, e che rappresentava un’assoluta novità per la televisione di quegli anni.

La vera protagonista della storia fu Roma, che ci apparve come una città stregata, dalla magia di Trastevere all’enigmatico Caffè Greco, fino allo scorrere lento del Tevere.

La vicenda si dipanava in un turbinio di incontri oscuri, trame tenebrose, messaggi arcani, ipotesi di reincarnazione, pratiche esoteriche. Una centrifuga parapsicologica che condusse il protagonista, uno studioso molto realista e non incline alle fantasie, a mettere in discussione le proprie certezze empiriche e a temere per la sua stessa vita.

Quella frase inquietante (che riporto in apertura), tratta dal diario romano di Lord Byron, diventò un cult per quella generazione di ragazzi. Come tutta la serie televisiva. Nel 1987, Giuseppe D’Agata, rimasto ultimo sceneggiatore dei quattro che avevano iniziato la scrittura del copione, trasse un romanzo da quella storia. Il finale del libro è diverso da quello dello sceneggiato, anche se simile nella sostanza.

La conclusione della storia fu irta di ostacoli per la difficoltà di riallacciare in maniera convincente tutte le false tracce disseminate nel corso della narrazione. Tanto che tre dei quattro sceneggiatori abbandonarono strada facendo, erano Flaminio Bollini, Dante Guardamagna e Lucio Mandarà.

Fu il regista Daniele Danza, uno dei migliori dell’epoca, a decidere il modo migliore per condurre in porto la produzione. Dopo sedici anni, D’Agata ha voluto consegnare ai lettori il suo personale finale della storia.

Cento Campane

La sigla finale ebbe una grande importanza nel successo della serie. Cento campane, scritta da Fiorenzo Fiorentini per il testo e da Romolo Grano per la musica. Cantata da Nico Tirone, cantante del gruppo Nico e i Gabbiani, che all’epoca godeva di un discreto successo.

È uno di quei casi in cui cinema e musica si sposano alla perfezione per poi riuscire a vivere di vita propria. Il disco ebbe un buon successo di vendite. Il brano è diventato un classico della canzone popolare romana, grazie soprattutto a Lando Fiorini, che ne fece uno standard del suo repertorio.

In conclusione

Dopo quello sceneggiato, la RAI si lanciò sul fortunato filone dell’esoterismo e produsse altri buoni lavori, ma mai all’altezza del primo. Ricordo Ritratto di donna velata e Ho incontrato un’ombra.

Eppure, oggi uno spettatore del 2021 troverebbe la storia de Il Segno del Comando priva di ritmo e di tensione, a causa della staticità delle sequenze descrittive e dei dialoghi. Sono passati cinquant’anni e la storia oggi andrebbe riscritta utilizzando tempi d’azione diversi, dandole un taglio cinematografico e utilizzando effetti speciali all’epoca inesistenti.

Non sarebbe una brutta idea rifare Il Segno del Comando in chiave moderna. Le storie che miscelano la parapsicologia e il mondo della magia hanno un fascino eterno, ora come allora.

Nel 1992 fu fatto un remake sul Segno del Comando da Canale 5, con Robert Powell ed Elena Sofia Ricci, ma niente a che vedere con il fascino dell’originale. Infatti, nessuno se lo ricorda. Oggi esistono mezzi digitali diversi, magari qualche produttore potrebbe pensarci per davvero.

Io ne sarei felice, anche perché se oggi scrivo fantasy forse lo devo anche a Il Segno del Comando.

Silvio Coppola

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