Miriam Toews e il suo romanzo più potente

MIRIAM TOEWS

Miriam Toews è l’autrice del libro “Donne che sapevano non dirlo” che non è solo una combinazione di nome e titolo, ma una porta d’accesso a uno dei romanzi più intensi e necessari del nostro tempo.

Siamo davanti a un’opera letteraria che scava nel silenzio, nella resilienza e nella capacità di resistere attraverso la parola, o meglio, attraverso la scelta consapevole di non usarla.

Parlare di “Donne che sapevano non dirlo” significa immergersi in un universo fatto di traumi collettivi, comunità chiuse e donne che decidono – finalmente – di prendere in mano la propria narrativa.

La scrittrice canadese Miriam Toews non è nuova a questi temi, ma qui tocca corde profonde, mettendo in scena la realtà ispirata da eventi accaduti realmente all’interno di una colonia mennonita boliviana.

Il risultato? Una riflessione potentissima sulla voce femminile, la fede, il potere e la scelta.

Miriam Toews: l’autrice e la sua voce fuori dal coro

Prima di addentrarci nel cuore del romanzo, serve conoscere Miriam Toews.

Nata e cresciuta in una comunità mennonita in Manitoba, Canada, Toews ha trasformato il suo vissuto personale in una missione letteraria.

Con un tono mai vittimista ma sempre lucido, la sua scrittura è un atto di disobbedienza consapevole.

In “Donne che sapevano non dirlo”, Miriam Toews alza il tiro, trasformando un episodio orribile – una serie di stupri sistematici perpetrati all’interno di una comunità mennonita – in una discussione collettiva tra donne che cercano di capire come reagire.

E già questo è un atto politico.

La trama: un dialogo come forma di resistenza

La storia si svolge tutta (o quasi) all’interno di un fienile.

Le protagoniste – donne di varie età e generazioni – si incontrano per decidere se rimanere, lottare o andarsene dopo aver scoperto che gli abusi sistematici subiti erano stati perpetrati da uomini della loro stessa comunità.

Non è un thriller, non è un giallo, e non ci sono colpi di scena: c’è il silenzio, il dolore, e poi – finalmente – la parola.

Miriam Toews struttura “Donne che sapevano non dirlo” come una sorta di verbale d’assemblea, con una narrazione filtrata dalla voce di August, un uomo tornato nella colonia per fare da scrivano.

Curioso, no? In un libro che parla di silenzi femminili, a raccontare è un uomo.

Ma è proprio qui che emerge la sottigliezza geniale di Toews: lo sguardo maschile è messo in posizione subalterna, funzionale, quasi “prestato”.

Il titolo stesso è un ossimoro poetico. Chi sa non dire ha un potere. Non è silenzio dettato dalla paura, ma una forma di controllo. Le donne del romanzo non sono passive: sono consapevoli, strategiche. Il “non dire” non è ignavia, ma resistenza. E quando decidono di parlare – anche solo tra loro – quel parlare è rivoluzione pura.

Miriam Toews lo sa bene, e ce lo fa sentire in ogni battuta, in ogni discussione su fede, perdono, giustizia.

La domanda che aleggia, martellante, è: “Che cosa significa essere libere, davvero?” L’ambientazione: fede, isolamento e patriarcato…

La comunità mennonita descritta da Miriam Toews in Donne che sapevano non dirlo non è solo uno sfondo. È un personaggio.

Con le sue regole, le sue interdizioni, la lingua (una versione arcaica del tedesco), le sue gerarchie. Un mondo chiuso, dove la religione diventa uno strumento di controllo.

Un mondo dove il patriarcato si maschera da protezione e dove il trauma è collettivo, ma l’elaborazione è negata. Toews, con il suo stile asciutto e penetrante, apre uno squarcio su questo universo claustrofobico, ma lo fa senza retorica.

Ti mette lì, nel fienile, seduto con le donne, e ti chiede: “Tu cosa faresti?” …Una lezione di sorellanza, forse?

In un’epoca in cui le parole “empowerment” e “femminismo” rischiano di diventare slogan svuotati, Miriam Toews ce ne offre la versione più autentica e brutale. Le donne del suo romanzo non cercano rivincita, ma liberazione. Non cercano vendetta, ma giustizia. E non la chiedono agli uomini, alla legge, al mondo esterno: la costruiscono da sole. Insieme.

C’è qualcosa di profondamente educativo in questo testo, e non è un caso che sia entrato nei programmi scolastici di molte università canadesi.

Siamo di fronte a un romanzo che riesce a fare da specchio alle contraddizioni della nostra cultura, e che allo stesso tempo propone una via d’uscita: l’ascolto reciproco.

Lo stile di Miriam Toews: precisione chirurgica ed empatia narrativa

Chi conosce Toews sa che la sua prosa è fatta di sottrazione.

Non troverai descrizioni barocche o grandi slanci lirici. Ogni parola è scelta con cura. Ogni dialogo è una pugnalata asciutta. Ma ciò che sorprende è come riesca, con tanta economia espressiva, a generare un’empatia devastante. Nel caso di Donne che sapevano non dirlo, questa tecnica narrativa è funzionale. Le protagoniste non sono letterate o acculturate, eppure le loro parole arrivano dritte al punto. Sono parole semplici, ma cariche di vita, di storia, di senso.

Il successo di Miriam Toews donne che sapevano non dirlo non si è fermato alla critica letteraria. Il libro ha avuto un impatto reale, alimentando dibattiti su abusi di potere, fede, comunità chiuse e diritti delle donne.

È stato adattato in un film nel 2022, diretto da Sarah Polley, e interpretato da Rooney Mara, Claire Foy e Frances McDormand, che ha anche prodotto la pellicola.

Il film ha fatto il giro dei festival internazionali, e il libro è tornato nelle classifiche grazie all’adattamento cinematografico, portando ancora più attenzione sul tema.

E anche in Italia, dopo la sua pubblicazione per Marcos y Marcos, ha trovato un pubblico attento e partecipe: un manifesto per il futuro

In conclusione, Miriam Toews donne che sapevano non dirlo è molto più di un romanzo. È una chiamata collettiva alla consapevolezza. Un invito a disobbedire quando necessario. Un tributo alla forza della parola, ma anche al potere del silenzio.

Toews riesce in un’impresa rara: trasformare una tragedia in un atto di speranza, raccontando il coraggio delle donne che, pur avendo mille ragioni per spezzarsi, decidono di reinventarsi.

E in questo c’è una lezione enorme, per tutti.

Il silenzio imposto: una questione di potere e autodeterminazione

Uno dei cuori pulsanti di Donne che sapevano non dirlo di Miriam Toews è il modo in cui il silenzio viene usato come strumento di oppressione.

In questo romanzo corale, ambientato in una colonia mennonita isolata e patriarcale, il silenzio non è assenza di parole, ma una gabbia: imposta, interiorizzata, trasmessa.

Le donne protagoniste hanno subito violenza per anni, ma ciò che le ha realmente spezzate è stato l’obbligo di non nominarla, di non parlarne nemmeno tra loro.

Miriam Toews ci mostra come l’oppressione patriarcale non si limita agli atti violenti, ma si struttura soprattutto nel controllo dei corpi, delle menti e del linguaggio. Rompere il silenzio – come scelgono di fare le protagoniste – diventa allora un atto rivoluzionario. Un gesto di autodeterminazione radicale. Il dibattito che anima le protagoniste si svolge nel fienile, lontano dagli sguardi maschili, quasi come una forma di proto-assemblea femminista.

E qui Toews inserisce uno dei nodi più densi del romanzo: può esistere giustizia in un mondo che è costruito interamente sull’ingiustizia verso le donne?

Il diritto alla fuga: quando scappare è un atto politico

Nel cuore del romanzo Donne che sapevano non dirlo, Miriam Toews ci mette davanti a una verità scomoda ma essenziale: a volte, l’unica forma di libertà possibile è la fuga.

Non la fuga come codardia, ma come scelta consapevole e coraggiosa.

Nel caso delle donne della colonia mennonita, fuggire significa sottrarsi a un sistema che ha normalizzato la violenza, un sistema che si fonda su regole scritte da uomini per mantenere il loro potere.

La questione è: possono restare e combattere, oppure devono andarsene per sopravvivere e dare un futuro diverso alle loro figlie?

Toews ci guida in questo dilemma con una lucidità disarmante.

Mostra quanto sia complesso per chi è nato e cresciuto in un ambiente oppressivo anche solo immaginare un’alternativa.

Ma quel fienile, dove le donne si riuniscono per decidere se restare, perdonare o andarsene, è già un primo atto di ribellione.

È lì che la fuga smette di essere una vergogna e diventa un atto di autodeterminazione.

Un gesto rivoluzionario, silenzioso ma pieno di senso.

La sorellanza come forma di resistenza

In un mondo che divide le donne, Donne che sapevano non dirlo mette al centro la potenza della sorellanza.

Toews non la descrive come una fratellanza zuccherosa, ma come una rete solida costruita nel dolore condiviso, nelle risate spezzate, nella complicità fatta di sguardi e battute fulminanti.

Le protagoniste del romanzo – Salome, Ona, Mariche e le altre – non sono eroine infallibili. Sono donne vere: stanche, ferite, contraddittorie. E proprio per questo profondamente umane.

Il modo in cui si ascoltano, si confrontano e si sfidano a pensare diversamente è ciò che dà spessore alla narrazione.

La sorellanza in questo caso è un’arma di costruzione di pensiero.

Un laboratorio politico informale, dove le idee circolano e prendono forma, senza imposizioni. E non è forse questo uno dei tratti più radicali del femminismo?

Dare spazio al dubbio, all’incertezza, ma farlo insieme, con rispetto e coraggio.

La religione come strumento di controllo (e di liberazione)

La religione in Donne che sapevano non dirlo non è solo sfondo.

È uno dei pilastri dell’oppressione.

Toews lo sa bene: è cresciuta in una comunità mennonita conservatrice, e la sua scrittura è permeata da quella conoscenza profonda, quasi genetica, del linguaggio religioso usato come catena.

Nella colonia, Dio è maschio, severo e silenzioso. È la scusa perfetta per giustificare l’indicibile.

“È la volontà di Dio” – quante volte le donne se lo sono sentite ripetere?

Ma la grande intuizione del romanzo è che la spiritualità può essere anche riformulata, trasformata.

Ona, forse il personaggio più filosofico, prova a immaginare una fede diversa, più libera, fatta di dialogo e non di imposizioni. Toews ci suggerisce che non è la religione in sé il problema, ma l’uso che ne fanno gli uomini per mantenere i ruoli di potere.

Una riflessione pungente e ancora attualissima.

Corpi femminili e diritto alla narrazione

La violenza che le donne della colonia hanno subito è scioccante: stupri sistematici durante il sonno, coperti con anestetici naturali, poi archiviati come “immaginazione” o “peccato”.

E qui Toews compie un gesto politico straordinario: restituisce la voce a quei corpi abusati.

Il romanzo è costruito come un verbale delle discussioni tra le donne.

Come se finalmente potessero scrivere la loro versione della storia.

E il messaggio è chiaro: il corpo femminile non è solo oggetto, ma soggetto narrante. Queste donne decidono insieme di riscrivere il loro destino. Decidono di parlare, dopo aver “saputo non dirlo” per troppo tempo.

È una forma di giustizia poetica e culturale che va oltre il romanzo. Riguarda tutte.

la politica del quotidiano secondo Miriam Toews

Donne che sapevano non dirlo non è solo un libro. È un campo di battaglia etico, intimo e politico.

Miriam Toews usa una scrittura calibrata, ironica, essenziale, per farci riflettere su cosa significhi essere donna in un mondo che continua a pretendere il silenzio. Ma quel silenzio, oggi, è rotto.

E ogni lettore o lettrice che attraversa queste pagine si trova davanti a una domanda potente: se fossi lì, cosa farei?

La forza del romanzo sta proprio qui. Nel farci sentire chiamati in causa. Nel mostrarci che il femminismo non è teoria astratta, ma scelta quotidiana. E che anche solo immaginare un’alternativa è già un primo passo per costruirla.

Biografia dell’artista

  • Autentica rivelazione della narrativa canadese degli ultimi anni, Miriam Toews è nata in Manitoba, in una comunità mennonita di stampo patriarcale e fondata sulla colpa.

  • I suoi genitori avevano vedute più larghe e si sono rassegnati a vederla fuggire. A diciotto anni era già a Montréal, e scrivere è stata la sua ribellione.
    Il regista messicano Carlos Reygadas l’ha tentata con il cinema, nominandola sul campo attrice protagonista di Luz silenciosa; la sua intepretazione è memorabile, ma il suo vero terreno era e rimane la scrittura, comica e malinconica in modo inestricabile.

  • Nel 2004 ha vinto un premio importantissimo, il Governor General’s Award, con Un complicato atto d’amore, pubblicato in Italia da Adelphi.
    In fuga con la zia si è aggiudicato il Rogers Writers’ Trust Fiction Prize ed è stato tradotto in dieci lingue.

  • Mi chiamo Irma Voth richiama la sua esperienza sul set di Luz silenciosa e narra lo stranissimo impatto di una troupe cinematografica su una comunità mennonita nel deserto messicano.

  • Un tipo a posto è il secondo dei suoi romanzi; I miei piccoli dispiaceri viene pubblicato in Italia da Marcos y Marcos (2015); con questo romanzo è tra i finalisti del Premio Sinbad.
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