Riccardo Benzina nome d’arte di Marco Malena e la sua raccolta di poesie: spiegati i particolari di “Scenario”il suo ultimo libro.

Riccardo Benzina nome d’arte di Marco Malena e la sua raccolta di poesie: spiegati i particolari di “Scenario”il suo ultimo libro.

Oggi siamo in compagnia del poeta pugliese Riccardo Benzina al quale abbiamo chiesto, dopo aver letto il suo libro di poesie, (Scenario), il perchè di alcuni dettagli, nomi, versi…ritrovati in “Scenari” edito per la taut taut

Adelfia, Japigia, Casamassima, Acquaviva: qual è il tuo rapporto con questi luoghi?

Li ho frequentati oppure li frequento tutti, in misura differente. A volte è bastata la suggestione di un secondo perché mi entrassero in memoria, altre volte è scattato qualcosa dopo anni. Ma per quanto i toponimi costituiscano un riferimento estremamente preciso, non possono che risultare trasfigurati sulla pagina: è questa l’eredità e il destino delle parole, credo… quindi ecco, ognuno può perdersi dove e come preferisce quando legge. Io, per me, cerco sempre in un testo la possibilità di smarrirmi: mi serve almeno un momento in cui non ci si possa appigliare davvero a nulla, in cui risulti impossibile fare i conti. La considero un’esperienza intensa e galvanizzante – ma allo stesso tempo pericolosa, non esente da rischi. Qualcosa da non sottovalutare, insomma. E quindi, da scrittore, nel mio piccolo, ho cercato di soddisfare questa necessità.

Cosa intendi con l’espressione, Riccardo, “una morte che sta di dentro”?

Sta di dentro e non verso la fine, scrivo. L’idea della morte prende forma in uno sguardo al di là: è collocata in avanti. Avrà luogo, tempo – ma non è adesso, non è qui. Perché siamo ancora vivi. Eppure conteniamo sezioni di noi che sono già in quel luogo, in quel tempo. L’impressione è che scontino la loro fine in anticipo, che siano state cedute più o meno consapevolmente a quello stato. È un trionfo della nostalgia, dove però non c’è ritorno: una zona grigia in cui l’impossibile sfiora l’ineluttabile. Non c’è nulla di definitivo, d’altronde. Più in là nel testo, infatti, scrivo: “Se solo / non dovessimo rivivere.”

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E che vuol dire, invece, “quante miglia dista un aggettivo dal sangue”?

La parola è una tecnologia imperfetta, funziona imperfettamente da millenni: disintegra la realtà in lingua, e vi si intrufola. Più che approssimare (nel senso di rendere più vicino), la mia impressione è che certifichi una distanza. Per appropriarsi di un mondo, ne crea un altro. E in questo gioco di riflessi che diventano talvolta spigoli, genera incessantemente suggestioni. Fa le sue promesse e le sue profezie. Erge incessantemente un impero, obliandone le fondamenta. Ma gli aggettivi, in quanto parole, hanno una data di scadenza… così come il sangue, d’altronde. E una possibilità di rinascita, ovviamente. Se è vero che la loro natura è differente, hanno di certo in comune questo: possono ritornare, in forma nuova.

Il tuo rapporto con i sogni appare velato. Ritieni di saper sognare ancora o i sogni sono solo per bambini?

Bisogna sapersi arrendere ai sogni.

“Ossa e brina una benda / dopo l’ennesimo aprile”: aprile è un mese doloroso per te?

Aprile è un mese dalla non trascurabile letteratura (Chaucer, Eliot, ecc.): quando scrivo che è “l’ennesimo” mi riferisco essenzialmente a questo, con una punta di ironia. A parte ciò, aprile è un mese di transizione. Un mese di piogge, di fioritura, di novità. E i mutamenti portano sempre le loro conseguenze. D’altronde, non si può trascurare che le stagioni stesse, a loro volta, stanno rapidamente mutando: tutti quanti stiamo assistendo a un epocale cambio di connotati del pianeta. Nessuno che scriva di prati o di cieli può mettere da parte il peso delle alterazioni progressive che il clima subisce di giorno in giorno, credo.

Il tuo rapporto con i traslochi? Entusiasmante o difficile?

Dipende molto da quale casa si viene, e in quale casa si va. Anche qui siamo di fronte a un processo di transizione, comunque. Trovo interessante questa simmetria: ti ringrazio per averla messa in evidenza. Penso che ogni trasloco, così come ogni aprile, sia stato per me necessario. E penso che in ogni passaggio si sia perso qualcosa – ma anche guadagnato qualcosa, o dimenticato qualcosa: scoperto, desiderato, rimpianto qualcosa… e dopo tutto, guardando indietro magari ci si può accorgere di un nocciolo rimasto intatto sin dall’inizio. A quel nocciolo si può tornare sempre. O meglio, non serve tornare: si è già lì.

TAUT

Riccardo Benzina (Bari 1988) presenta una raccolta ruvida e frontale, pervasa da un ingegnoso humour nero, per dirla con Breton.

Il libro scava negli spazi più torbidi dell’esistenza, «fin dove si è potuto», fino nel «tuorlo delle cellule».

Il realismo si distende tra boschi parlanti e «inadeguate dalie… solo aria e sole, buchi nel paesaggio». 

L’attitudine drammaturgica spinge la dizione verso toni fastosi ma all’autore non interessa essere scorrevole, semmai desidera concedere al lettore un tempo extra, perpendicolare al tempo.

Benzina si abbandona a una fiducia senza reti, a una coraggiosa aspettativa nella parola e nella sensibilità del lettore: «ho bisogno del tuo aiuto amico mio. // Tu sai farlo. Tu rendi questi fili scollegati».

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